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l tempo che salta le pagine e quello che invece rimane

Ottavia Lavino

Ogni anno la stessa storia: non facciamo in tempo a spegnere l’ultima lanterna di Halloween che già ci ritroviamo immersi in una foresta di lucine natalizie. Le zucche non hanno ancora fatto in tempo a decomporsi che i supermercati ci ricordano che “siamo già nel periodo delle feste”, anche se il calendario prova timidamente a far notare che manca ancora più di un mese.

Viviamo in un’Italia dove il Natale non arriva: lo anticipiamo. Lo tiriamo fuori dagli scatoloni in fretta e furia, lo inseguiamo, lo forziamo. E in questa corsa, novembre sparisce. Un mese inghiottito, come se non avesse niente da dire.

Eppure, mentre tutto accelera, io mi accorgo che dentro di me il tempo funziona ancora all’antica. Io non riesco a saltare le pagine.
E so esattamente da dove mi viene questa ostinazione.

A casa mia l’8 dicembre era più di una data: era un confine sacro.
Non si discuteva. Non si anticipava. Non si rimandava.
Quel giorno si facevano l’albero e il presepe, e questo bastava per far sentire l’inverno, la festa, la famiglia.

Io e mio fratello aspettavamo quel giorno come si aspetta un piccolo Natale dentro al Natale. Gli scatoloni tirati fuori dal ripostiglio, il profumo della polvere che si mescolava con l’emozione, le mani che cercavano la stella giusta per la punta dell’albero, gesti che segnavano ufficialmente l’inizio della magia. E poi c’era lei: la Madonna di cartapesta.

Un regalo di mia nonna a mia madre, un oggetto semplice ma bellissimo, fragile, che oggi io custodisco gelosamente, capace di trasformare un appartamento in un luogo di raccolta. Da quando quella Madonna arrivò in casa, l’8 dicembre divenne il giorno della messa domestica. Prima celebrata da padre Clemente, poi da padre Celestino, sempre con le amiche di mia madre che entravano in casa come se stessero varcando la porta di una piccola chiesa segreta.
Niente era improvvisato.
Niente era commerciale.
Era tutto profondamente nostro.

Ripenso spesso a quell’8 dicembre: al mormorio delle preghiere, al profumo di caffè preparato dopo la funzione. E ripenso a mia madre, che quel giorno diventava custode di una tradizione che non aveva bisogno di luci intermittenti per essere festa.

Forse è per questo che oggi, quando vedo novembre ignorato come un vecchio parente che nessuno saluta più, sento una lieve malinconia. Non perché il Natale arrivi presto, il Natale ha sempre la sua bellezza, qualunque sia il giorno in cui lo si accende.
Ma perché non c’è più attesa.
Non c’è più quel tempo lento che serviva a preparare il cuore, prima ancora della casa.

Vorrei dirlo a voce alta: che non serve avere l’albero il 3 novembre per sentirsi più felici. Che le feste hanno bisogno di respiro, di silenzi, di piccoli rituali. Di mani che si incontrano, non solo di lucine che lampeggiano.

E allora forse, mentre il mondo corre, l’unica cosa che possiamo fare è custodire dentro di noi un piccolo 8 dicembre.
Un giorno che non si anticipa e non si salta.
Un giorno che esiste perché lo abbiamo vissuto, non perché lo abbiamo consumato.

Un giorno che ci ricorda che la vera festa non ha mai fretta.
E che il tempo, quando è pieno d’amore, sa ancora camminare piano.

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