La Giornata internazionale contro la violenza sulle donne è stata istituita dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite per sensibilizzare la società e promuovere l’eliminazione della violenza di genere, una piaga che ancora oggi affligge milioni di donne in tutto il mondo.
La violenza di genere è una realtà universale, che assume forme diverse a seconda del contesto culturale e sociale. In molti Paesi, le donne sono costrette a matrimoni precoci o sono sottoposte a mutilazioni fisiche, mentre in altri luoghi subiscono violenze domestiche, psicologiche, economiche e sessuali. Anche le violenze meno visibili, come quelle psicologiche ed economiche, sono estremamente dannose: negare a una donna l’accesso alle risorse economiche o la libertà decisionale rappresenta una forma di controllo che lascia ferite profonde nell’anima.
Negli ultimi mesi, in Italia si è tornato a parlare di una nuova ondata di femminicidi, eventi tragici che hanno portato alla ribalta le storie di donne uccise da partner o ex partner. Secondo l’ultimo report del Ministero dell’Interno, tra il 1 gennaio e il 27 ottobre 2024, sono state uccise 80 donne in contesti familiari o affettivi, di cui 50 per mano di partner o ex partner. Tuttavia, secondo l’Osservatorio di Non Una di Meno, il numero è ancora più alto, indicando una lacuna significativa nella raccolta e definizione dei dati.
In Italia, non esiste ancora una banca dati istituzionale pubblica che registri in modo accurato i femminicidi, tenendo conto della definizione specifica del termine. Il Ministero dell’Interno pubblica report settimanali sugli omicidi, specificando il sesso delle vittime e la relazione con il presunto colpevole, ma non utilizza mai la parola “femminicidio”.
L’Osservatorio di Non Una di Meno, invece, conta 93 uccisioni fino all’8 ottobre, includendo non solo femminicidi, ma anche transicidi e lesbicidi. Questo dato evidenzia come la mancanza di una definizione chiara e univoca del fenomeno porti a una discrepanza nelle statistiche, rendendo più difficile comprendere l’effettiva portata del problema.
Il problema ha evidentemente una portata sociale e nessuno, a nessun livello, può permettersi di esimersi dall’affrontarlo. Men che meno chi appartiene alla categoria dei carnefici.
Sia chiaro, il numero di uomini che usa violenza contro l’altro sesso è infinitesimale rispetto al totale, ma siamo sicuri, tutti, di essere esenti da questo sentimento, purtroppo atavico, che indica la donna sottomessa all’uomo in quanto tale? Ad ognuno è capitato almeno una volta nella vita, di esercitare questo potere, sia pure in forme e con metodi diversi: basta fare una semplice battuta ad una compagna di corso universitario, dicendole che si è vestita in un certo modo il giorno dell’esame per cercare di strappare un voto in più all’attempato professore che ci siamo: questo è un tipico esempio attacco ad una donna in quanto tale. Allora c’è da chiedersi il perché. C’è da chiedersi chi abbia la responsabilità di fare in modo che la parità tra i sessi non sia solo uno slogan da manifestazione o da campagna elettorale, ma un obiettivo da perseguire. E quindi il dito viene puntato contro la famiglia, dove non capita purtroppo di rado che alcuni bambini, sin da piccolissimi, imparino “chi comanda”… Proprio questo insegnamento che “comanda chi è più forte” sta poi alla base certi atti.
Insegnare ai giovani che le persone si definiscono per quello che fanno, non per come appaiono: questa dovrebbe essere la missione degli educatori, tanto a scuola quanto, soprattutto, tra le mura domestiche. Solo così potremmo evitare, in futuro, di assistere ad episodi tanto disgustosi quanto socialmente aberranti.