Il 25 novembre torna tra panchine dipinte e slogan istituzionali, ma dietro la memoria restano centri antiviolenza allo stremo, personale non formato e un patriarcato che si traveste da protezione. Senza educazione affettiva e sessuale, la libertà delle donne resta ancora una promessa tradita.

Ogni 25 novembre, l’Italia si veste di rosso. Scarpe allineate nelle piazze, panchine ridipinte, minuti di silenzio, dichiarazioni istituzionali. Poi tutto torna come prima. Le donne continuano a morire, a essere picchiate, umiliate, licenziate se diventano madri, ignorate se chiedono aiuto. La retorica dell’emergenza si riaccende per un giorno, ma la violenza patriarcale non è un’emergenza: è la normalità che attraversa la nostra società, le nostre leggi, le nostre case.
Dietro le parole solenni delle politiche e dei politici ci sono centri antiviolenza che chiudono, perché i fondi arrivano tardi o non arrivano affatto. Ci sono operatrici che lavorano con contratti precari, stipendi miseri e una dedizione che supplisce alle carenze di uno Stato che le considera un lusso, non un presidio di civiltà. Quei centri sono spesso gli unici luoghi in cui una donna può ritrovare il proprio nome, la propria voce, il proprio corpo. Eppure li si lascia soli, invisibili, come se la libertà femminile potesse reggersi sul volontariato.
Nelle caserme, negli ospedali, nei tribunali, la violenza si ripete sotto altre forme: domande insinuanti, sguardi che giudicano, verbali che riducono un incubo a “lite familiare”. Mancano formazione, empatia, linguaggio. Mancano strutture che sappiano accogliere, ascoltare, credere. E quando lo Stato parla di “protezione”, lo fa ancora con voce maschile e paternalistica: la donna come essere fragile da difendere, non come soggetto politico da liberare. Ma la protezione non è libertà — è il recinto ben dipinto di un sistema che continua a decidere per noi.
Dietro la retorica della tutela si nasconde l’antico volto del patriarcato, quello che dice: “ti salvo io, ma alle mie condizioni”. È lo stesso volto che pretende riconoscenza, che teme la rabbia femminile, che deride il femminismo come eccesso o moda. È un volto che non sa guardare in faccia la verità: la violenza contro le donne non nasce dal buio improvviso di un raptus, ma dalla luce quotidiana di un potere che non vuole cedere il passo.
Eppure, la rivoluzione che serve è a portata di mano. Si chiama educazione sessuale e affettiva. Nelle scuole, fin da piccole e da piccoli, dovremmo insegnare che il corpo dell’altra persona non ci appartiene, che il consenso è la base dell’amore, che la parità non è gentile concessione ma diritto. E invece in Italia questo resta un tabù: si preferisce tacere, lasciare che la pornografia faccia da maestra, che la cultura della sopraffazione cresca indisturbata. Parlare di sesso e affettività è ancora percepito come scandalo. Ma il vero scandalo è continuare a non parlarne.
Il 25 novembre non dovrebbe essere solo memoria e lutto. Dovrebbe essere rabbia, voce, azione. Perché la violenza contro le donne non si combatte con le panchine rosse, ma con le leggi, i fondi, l’educazione, la libertà. Non ci serve più uno Stato che ci protegge: ci serve uno Stato che ci ascolta, ci crede, ci lascia spazio.
Perché finché la libertà delle donne resterà una concessione e non un presupposto, ogni 25 novembre sarà solo la cronaca di un fallimento. E noi, ancora una volta, a dare voce a chi non tornerà più a casa.









