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Giorgia Gentili-
25/10/2023

Cos’è il gender pay gap e come procede il dibattito sul salario minimo in Italia

Viene definito “gender pay gap” e nel 2021 in Italia si attestava al 5%. Stiamo parlando della differenza di retribuzione tra uomini e donne. La percentuale non tiene conto del grado di istruzione, del ruolo nell’azienda e dell’anzianità lavorativa e si basa su un campione di aziende con più di 10 dipendenti l’una, escludendo una vasta fetta dell’occupazione italiana composta dal 43,7% di impiegati di microimprese, ovvero con meno di 10 dipendenti; tuttavia, sono importanti i dati che emergono da diverse ricerche effettuate nel campo.

Se si guarda all’Europa, il gender pay gap ha un valore medio di 12,7%. L’Italia si posiziona quinta tra i 27 paesi UE: in ultima posizione l’Estonia con una percentuale del 20,5%, mentre apre la fila la Romania con il 3,5%.

Inoltre, è bene dire che negli ultimi dieci anni, il gender pay gap ha subito sia in Italia che in Europa una contrazione. Questo fenomeno riguarda alcuni settori più di altri: nel mondo dello spettacolo, gli uomini guadagnano il 62,1% in più rispetto alle donne; mentre nelle attività minerarie sono proprio le donne a guadagnare il 5,2% in più rispetto agli uomini, un’eccezione che ci tira su il morale di poco, pochissimo.

La questione è stata anche tema di discussione all’interno del Parlamento Europeo, il quale ha adottato leggi, pubblicato documenti per lo scambio di buone pratiche e offerto fondi per sostenere l’azione degli stati membri.

Quanto a occupazione, la rappresentanza femminile nei ruoli di leadership è lentamente aumentata negli ultimi otto anni, come ha dimostrato il Global Gender Gap del World Economic Forum 2023, tuttavia nei primi tre mesi del 2023 sembra esserci stato un calo che ha riportato la situazione a quella del 2020. Uno dei principali punti critici è il rallentamento del mercato del lavoro, il quel colpisce più l’occupazione femminile che maschile.

Il tema va ad affiancarsi direttamente a quello del salario minimo, molto discusso sia durante l’ultima tornata elettorale che negli ultimi mesi, a seguito della discussione di una direttiva UE trattante proprio la questione. La direttiva si poneva come obiettivo la protezione e la garanzia dei salari minimi e dignitose condizioni di vita e di lavoro; tuttavia, nel provvedimento non c’è l’obbligo per gli Stati membri di introdurre il salario minimo legale.

Se si guarda all’UE, sono 22 gli stati membri che hanno dei salari minimi legali; in 6, e tra questi rientra l’Italia, il salario minimo è garantito esclusivamente dai contratti collettivi. Per la Premier Meloni, anche dopo aver incontrato a Palazzo Chigi i leader di opposizione, come spiega nella lettera indirizzata al Corriere della Sera del 12 agosto, “il timore è che il salario minimo possa diventare un parametro sostitutivo e non aggiuntivo per i lavoratori, andando così, per paradosso a peggiorare la condizione di molti lavoratori. Sono dubbi che condivido, ma ripeto: non ho preclusioni ideologiche, la mia è solo la doverosa preoccupazione di non intervenire su una materia così delicata senza la certezza di aver vagliato tutti i pro e contro. Ho proposto alle opposizioni di avviare un serio confronto nella sede preposta a farlo per costituzione e cioè il CNEL”.

Il tema, almeno per quanto riguarda la politica, è rimasto aperto; tuttavia, a Torino, una vicenda ha fatto esprimere la Cassazione a riguardo, lo scorso 3 ottobre 2023. Un dipendente della Servizi Fiduciari di Torino, vigilante in un Carrefour, si è dapprima rivolto alla Corte d’Appello lamentando la non conformità del suo contratto collettivo con l’articolo 36 della Costituzione.

La Corte d’Appello ha riconosciuto il primato della contrattazione collettiva; tuttavia, la Corte di Cassazione con la sentenza 27711 si è orientata verso la Costituzione. Per il giudice la contrattazione collettiva non può essere “un fattore di compressione del giusto livello di salario e di dumping salariale”.

Una sentenza storica per i partiti di opposizione. In particolare, Marco Grimaldi di Europa Verde ha sottolineato: “È la prima volta che questo dibattito arriva in Cassazione, sancendo che il giudice può mettere in discussione i contratti poveri come il CCNL Servizi Fiduciari. Ed è la prima volta che la Cassazione parla di ‘povertà nonostante il lavoro’, introducendo in sostanza al massimo grado la categoria di lavoro povero nel dibattito giurisprudenziale”.

Tuttavia, il tema resta controverso. Il 17 ottobre, a Montecitorio era prevista la discussione del nuovo disegno di legge sul salario minimo legale. Il tutto si è concluso con le urla dai banchi di opposizione. La seduta, infatti, si è aperta con un intervento da parte del Cnel, presieduto da Renato Brunetta. Alla fine, la discussione del disegno di legge è stata rinviata, scatenando la polemica di Schlein, la quale ha commentato il rinvio come un “durissimo colpo per i lavoratori poveri e poverissimi”. Ancora più duro Conte che ha attaccato: “Con la mia forza politica siamo intransigenti sulle scelte sbagliate di Giorgia Meloni, ma c’è una cosa peggiore delle scelte sbagliate, c’è la volontà deliberata di nascondersi tirando in ballo altri senza mettere la faccia sulle proprie scelte”. Per Tommaso Foti (FDI), invece, le motivazioni presentate da Brunetta erano più che valide e sufficienti per il rinvio.